…In tubino nero e filo di perle

24 marzo 2020 di: Grazia Fallucchi

“Se c’è un simbolo della nostra odierna paura e ansietà, causati dall’ insorgere del Coronavirus, quello è la mascherina chirurgica” , scriveva sul New York Times del 17 marzo Vanessa Friedman, redattore di moda del quotidiano. “Quando la storia guarderà alla pandemia del 2020 saranno quei rettangoli bianchi o celesti che nascondono la bocca e il naso , trasformando tutti in pellicani con la museruola, a essere ricordati. Più che il gel disinfettante, più che l’obbligo a lavarsi le mani, la mascherina è l’avatar del virus”. E conclude: “ E’ segno delle nostre paure, desiderio di nascondersi, incapacità a proteggerci, sopratutto voglia di fare qualcosa, qualunque cosa, che segnali che stiamo agendo”.

Sullo stesso numero del quotidiano americano, ad alleggerire la tensione la stessa Friedman dialoga in un articolo a due mani con la redattrice di economia Sapna Maheshwari, sul significato che ha oggi il “vestirsi per andare al lavoro”, quando il lavoro si svolge da casa. Ma tu come ti vesti? -chiede Vanessa – non sono sicura che la risposta giusta sia restare in pigiama. In leggings, calzini, e pullover, risponde Sapna, ma mi trucco e continuo a piastrami i capelli, pronta per le conferenze via skype.

E noi? Come ci vestiamo noi in questi giorni che rischiano di diventare settimane? Come ci vestiamo per il telelavoro o per le riunioni su skype? Ma anche, come affrontiamo lo stare in casa per noi stesse, quando seguiamo magari i video per mantenerci in forma, quando ascoltiamo le ultime notizie della Protezione civile, quando cuciniamo, chattiamo con gli amici, ascoltiamo musica o audio libri, guardiamo film, o prendiamo aperitivi virtuali?

E quando leggiamo? Come tutti, editori, librerie, autori sono sospesi in un limbo e costretti fronteggiare l’emergenza. Le case editrici propongono recensioni sul web, liste di lettura e libri da acquistare: rigorosamente online, le librerie sono chiuse (vale per tutte una foto dello straordinario Strand , “18 miglia di libri”, sulla Broadway newyorkese, meta di turisti acculturati o curiosi). Così capita che arrivi la newsletter della Editrice Giuntina e la scoperta di “E la sposa chiuse la porta”, l’ultimo libo di una peculiare scrittrice scomparsa 3 anni fa, Ronit Matalon.

Chi è Ronit Matalon? Personaggio tra i più importanti della letteratura isreliana, Ronit Matalon ha scritto della complessità delle identità multiple, lei nata in Israele da genitori emigrati dall’Egitto che parlavano arabo e francese (il suo aristocratico e intellettuale padre abbandonerà la famiglia non volendo vivere da povero ebreo orientale in un paese dove allora il potere era accentrato dagli askenaziti). Nota per la sua libertà e per il radicalismo politico -in una intervista a Le Monde dichiarava che i cittadini israeliani vivono all’ombra di un regime di apartheheid- è stata una combattiva attivista politica ma anche autrice di nove romanzi, saggista, critica letteraria e giornalista che per il quotidiano Haaretz ha seguito gli avvenimenti a Gaza dal 1986 al 1993. La sera prima della sua scomparsa nel dicembre 2017 a 58 anni, la figlia Tayla riceveva a nome della madre il premio Brenner, il più famoso riconoscimento letterario israeliano, per l’ ultimo romanzo, appunto “E la sposa chiuse la porta”.

Perché di tanti libri, parlare proprio di questo? Perché certamente Ronit Matalon è tutta da scoprire ma anche perché la porta, dietro la quale sceglie di rinchiudersi la sposa del titolo, in modo certamente arbitrario fa venire in mente le nostre porte chiuse, l’isolamento contro il contagio. Margie, la sposa, sceglie di escludersi dalla sua famiglia e da quella del promesso sposo il giorno del matrimonio: per influenzare l’esterno? Come atto creativo di sopravvivenza interiore? Non vuole essere “contagiata”? Alla folla di personaggi che la incalzano e la pregano di non rovinare la festa e mandare a monte l‘unione con la ricca e askenazita -guarda caso – famiglia dello sposo, risponde con il silenzio. C’è un suocero preoccupato solo della sua pressione arteriosa; una madre che ancora attende il ritorno di una figlia scomparsa 10 anni prima; un cugino transgender; un operaio palestinese che presta la gru allo psicologo per parlare con la sposa dalla finestra. E c’è ovviamente il futuro marito: con lui e solo con lui Margie comunica scrivendo messaggi -ed è qui la storia d’amore del romanzo-. Ma c’è soprattutto la vecchia nonna, che tutti giudicano un po’ senile (non viene in mente qualcosa di questi giorni?): sarà lei, che con una sua canzone riuscirà a convincere Margie ad aprire la porta.

Il romanzo ha molti altri significati e molte letture, al di là di questo scarno riassunto. Ma è un invito a leggerlo. Magari in poltrona, in tubino nero e filo di perle.

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