La Sardegna è un’altra cosa

1 marzo 2010 di: Silvana Fernandez

Parli della Sardegna e chiunque ti è attorno sorride. Qualcuno fa un gesto come  per dire: beh, là è il paradiso… allora capisci che pensano al Billionaire, agli harem di villa Certosa, alla costa Smeralda. La costa è il confine di una terra  visto dal mare,  si presuppone che vi sia poi un entroterra e tutta un’isola. In questo caso l’isola è distante, più di mille miglia, dalla grande illusione che ci danno i vari posti trasformati per i ricchi turisti, ed eletti, dal nostro minuto (parlo d’altezza) imperatore, a luoghi di sfarzo. No, questi scenari  non hanno niente a che vedere con la verità dell’isola. Sono come un fondale di carta pesta, come  delle quinte da palcoscenico che nascondono la  realtà sarda composta, per esempio,  da quattromila uomini e donne che hanno lasciato l’agricoltura, la pastorizia, presi dal sogno americano che offriva l’ALCOA. Non contenti più di pane e companatico si sono ritrovati senza né l’uno, né l’altro. Nei giorni scorsi ha avuto luogo una riunione di migliaia di persone (per il nostro governo, un centinaio), hanno seppellito, ignorati dalla televisione e da quasi tutti i quotidiani, una piccola bara con sopra la bandiera americana. Seppellivano i simboli dell’America ma gridavano che  non  erano disposti a seppellire quel sogno di diventare classe operaia, sogno senza pretese ma che a loro bastava.

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