solitudine di madre

25 aprile 2010 di: Simona Mafai

Vi sono tragedie così grandi, che si ha ritegno anche a parlarne. La giovane donna di Gela (30 anni), che ha spinto i suoi figli dentro un mare in burrasca, ripetendo il gesto più volte, finché sono annegati, si trova (giustamente) in carcere e vorremmo che su di lei si adagiasse una coltre di pietà.

Aveva scritto su Facebook pochi giorni prima: «Quando non si può tornare indietro, bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore di andare avanti». Era dunque consapevole dei suoi doveri; la ragione le indicava la strada difficile da percorrere, ma il cuore (e gli intestini) non hanno retto.

Il figlio più grande (8 anni) era autistico: una disabilità ancora oscura, dolorosissima e quasi colpevolizzante per la madre. Anche il secondo (2 anni) mostrava i segni dello stesso male. Non è allora inopportuna la domanda: la comunità (che parla sempre d’incoraggiamento alle nascite e di tutela della famiglia) quale assistenza dava a questa donna? Era un’assistenza continuativa o episodica? O forse addirittura nulla? Il marito aveva iniziato le pratiche della separazione da sei mesi. Ha dichiarato che «da tre settimane non vedeva i figli».

Nessun giustificazionismo. Ma una constatazione: di solitudine si muore. E si uccide.

(Giotto, Lo sposalizio della vergine, part.)

1 commento su questo articolo:

  1. Francesca Vassallo scrive:

    Sì Simona condivido la tua riflessione. E’ immensa la solitudine di una madre che deve farsi carico interamente di una solitudine senza ritorno di due figli. La comunità non ha gli strumenti per sostenere il “non senso”. E mentre condanna il gesto di una madre disperata, promuove vite nuove augurandosi che siano più “produttive”. Non sapendo ascoltare e tutelare le vite esistenti ci si accanisce nella difesa di una vita che non c’è perchè possa essere ciò che si giudica debba essere la vita di un uomo e di una donna.

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