il teatro e il cambiamento

27 maggio 2010 di: Gisella Modica

Sono andata ad ascoltare Marco Paolini, il narratore. Non era uno spettacolo ma una libera discussione all’interno del Laboratorio Zeta di ascolto attivo del territorio.

«Come agire un dialogo costruttivo col territorio? Come ascoltarlo in modo realmente partecipato?» Erano queste le domande. L’ascolto attivo, è stato detto da chi ha introdotto, é una tecnica di mediazione “a specchio” in cui chi ascolta restituisce l’immagine che coglie dalle parole e dai gesti di chi racconta, per stimolare il livello di consapevolezza. Paolini, penso in modo provocatorio, ha stimolato i primi due interventi (di uomini) per poi fare notare che parlando nel modo in cui avevano parlato – una sorta di politichese, prodotto tipico della sinistra radicale, si parte già col piede sbagliato, perché in politica – Berlusconi (da Paolini chiamato Maradona) insegna -, la cosa più importante è il linguaggio. Una lingua capace di raccontare storie, più che parlare dei massimi sistemi. In un mondo globalizzato è difficile trovare le connessioni dei fatti, e per arginare il rischio di essere trasformato, come già di fatto avviene, in un consumatore passivo oltre che di merci, anche dell’informazione, una forma di resistenza è quella di usare la lingua del racconto.

Raccontando storie, spiega ancora Paolini, crei il legame tra il problema generale, e tu che vivi quel problema, trasformando te stesso da spettatore in attore. Come dire: nessuna modificazione del mondo può avvenire senza modificare te stesso/a. Passaggio cruciale, difficile per il genere maschile, soprattutto se impegnato in politica. Che in un luogo dove si fa politica ci si ponga il problema del “come fare” ovvero della pratica politica, oltre che del “cosa fare”, chiamando in aiuto il teatro (Marco, tu ci devi aiutare, è stato detto più volte) è un bel segnale di vera e profonda voglia di cambiamento. Voglia di partire da sé. Un movimento, prima dell’avvento di Paolini, lo aveva capito che in politica il problema era: 1. la necessità di una pratica che non dimentica mai da quale contesto (maschile o femminile) si parte; 2. il linguaggio, ponendo l’accento sul simbolico, e parlando di lingua materna; 3. lo strumento della relazione come forma di mediazione primaria.

Non mi risulta però qualcuno, o un gruppo politico esterno al movimento, lo abbia mai invocato chiedendo aiuto: «donne, ci dovete aiutare!». O sbaglio?

(Saul Steinberg, Tavola)

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