Le giovani non vengono alle iniziative femministe? Andiamo noi da loro.

13 maggio 2010 di: Monica Lanfranco

Un flashback: prima della tre giorni femminista PuntoG, nel giugno del 2001, nel mondo dei movimenti delle donne che lavoravano dentro e fuori del Genoa Social Forum ci fu un conflitto importante e significativo. All’epoca ero una delle portavoci del Gsf e più si avvicinava luglio più si infiammava il dibattito dentro e fuori i luoghi dove si stava organizzando e decidendo il da farsi per l’imminenza della settimana di dibattiti, incontri e manifestazioni a ridosso del G8 di Genova.

Intorno a maggio una componente del Gsf, quella della Tute bianche, senza avvertire gli altri gruppi uscì a sorpresa con un comunicato e una conferenza stampa, effettuata con i volti coperti, nel quale si dichiarava “guerra al G8” e si annunciava che si sarebbe violata con ogni mezzo la zona rossa imposta a Genova.

Il fatto suscitò una grande irritazione da parte delle componenti esplicitamente nonviolente del Gsf, tra cui la componente femminista. La nostra critica più evidente era sull’uso clamorosamente contraddittorio e controproducente di un linguaggio aggressivo e militaresco, che in un colpo solo, a scopo propagandistico e autoreferenziale, faceva arretrare l’immagine dei movimenti che, proprio grazie al lavoro di mesi delle femministe e della componente nonviolenta aveva cercato di guadagnare l’attenzione dell’opinione pubblica sui contenuti e sulle pratiche pacifiche e altre rispetto alla violenza del G8.

Alcune giovani donne delle Tute Bianche mi contattarono, subito dopo un nostro duro comunicato nel quale ci dissociavamo come femministe da quella iniziativa: allora come ora pensavamo che è necessario, nel cambiamento, partire da un linguaggio smilitarizzato, perché, per dirla con le parole di Audre Lorde «non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone».

Esse vivevano una forte contraddizione dalla quale non sapevano come uscire: si sentivano in sintonia con le nostre affermazioni, ma dall’altra parte, con candore e franchezza, ci dissero che avevano difficoltà ad aderire al nostro comunicato perché i loro compagni avrebbero preso male una dissociazione e una critica.

Io con alcune altre decisi di convocare una riunione e offrii loro una mediazione: avremmo fatto assieme un documento contro il militarismo dentro e fuori i movimenti che potesse essere condiviso da tutte noi, in modo da rafforzare anche la loro presenza dentro il gruppo misto delle Tute Bianche, monopolizzato e diretto da maschi. Una buona mediazione, un gesto di responsabilità che metteva al centro la relazione tra donne di diverse generazioni.

Ho fatto questo esempio di pratica di mediazione perché credo che oggi, a pochi anni di distanza dal 2001 ma in una realtà che a volte appare lontana in modo siderale da allora, tocchi nuovamente a noi “maggiori” fare un primo passo verso le giovani donne (e uomini) per riprendere il filo del dialogo e della trasmissione dei valori e delle pratiche del femminismo.

Non c’è iniziativa promossa da gruppi di donne nella quale non si affronti il delicato tema della scarsa presenza di giovani con l’annosa domanda: «Dove sono?» e anche «Come facciamo a coinvolgere le nuove generazioni?». Ovviamente non c’è solo una risposta, ma intanto ecco la mia: «Andiamo noi da loro». Personalmente e collettivamente lo faccio, per esempio, da 15 anni attraverso la rivista Marea, e ultimamente con il libro Letteralmente femminista.

Penso che in questo momento di grande difficoltà per la civiltà dei diritti di genere e della democrazia in generale ci siano, per paradosso, degli spazi che si aprono per ricominciare con un’azione incisiva di rialfabetizzazione alla politica delle donne.

Se è vero che alle iniziative che si stanno intensificando in tutta Italia in difesa dell’autodeterminazione le giovani donne non sono la maggioranza, e se è vero che ancora una volta sono le donne più adulte ad essere in prima fila nella difesa dei diritti di genere, perché non prendere l’iniziativa e proporci loro come interlocutrici nomadi e andare dove le giovani si trovano, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali, nelle associazioni dove le ragazze e le giovani donne si impegnano, spesso senza attenzione alla differenza di genere?

Nel primo femminismo le studentesse maggiormente stimolate nella presa di coscienza della segregazione sessista incontravano le donne meno fortunate. Nei paesi in via di sviluppo, e dove governano regimi autoritari e fondamentalisti si sta facendo la stessa cosa adesso. L’autorevolezza delle donne, teorizzata e discussa a lungo, credo possa prendere anche la forma di offerta di interlocuzione attraverso la narrazione della storia, individuale e collettiva, che ciascuna di noi porta con sé. Se le giovani donne non ci troveranno, a noi sorelle maggiori, madri e nonne simboliche, pronte e disponibili al dialogo e al conflitto con loro credo che rischieremo di perdere una importante occasione.

(Egon Schiele, Le amiche, 1913)

(genome-butterflies)

1 commento su questo articolo:

  1. F.V. scrive:

    Condivido la preoccupazione, ma credo che non basti la narrazione della storia individuale e collettiva a sensibilizzare la nuove generazioni alla politica delle donne. Se l’obiettivo è la crescita di autonomia femminile e l’ assunzione di responsabilità, l’ autorevolezza delle donne “più grandi” si dovrebbe fondare sulla propria disponibilità ad accogliere, nominare, condividere ciò che dalle storie individuali e collettive rimane fuori, affinchè questo “scarto” diventi materia di novità e di trasformazione anche per le più giovani. Questa..cosa le donne la saprebbero fare meglio degli uomini ma dovrebbero rinunciare a sentirsi, come gli uomini, “sicure” nella /della propria storia. Allora, forse, le nuove generazioni accetterebbero l’ “offerta di interlocuzione”, perchè sentirebbero che c’è posto anche per chi, troppo giovane, non ha una storia politica da narrare, ma un desiderio da salvare.

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