bamboccioni “no future”

8 giugno 2010 di: Marcella Geraci

A pochi giorni dalla pubblicazione del Rapporto Istat 2009 sulla situazione del Paese, i giovani tornano protagonisti della scena. L’80% del calo occupazionale riguarda proprio loro e, in Europa, oltre due milioni di giovani non lavorano e non studiano. Ingrossano le fila di quella che è stata definita la “neet generation” (not in education, employment or training), altra definizione che nutre il già abbondante vocabolario dedicato ad almeno due generazioni rimaste ai margini del lavoro, dell’occupazione e della capacità di acquisto. Rimaste ai margini del diritto.

Che la crisi sia mondiale ce lo ricordano le immagini della Grecia trasmesse dai tg e dai programmi di approfondimento e attualità. Immagini da inferno dantesco aiutano a collocare i “bamboccioni” e la generazione neet in uno scenario critico più vasto, del quale spesso si tenta di comprendere solo gli aspetti economici. Rimangono fuori dal discorso mediatico le ragioni esistenziali e culturali alla base dei comportamenti dei giovani di oggi.

Ad esempio, nel caso dei trentenni, quanto ha influito il fatto che si tratta di una generazione che ha vissuto un’infanzia breve e un’adolescenza precoce anche se maggiormente protratta? A quali fattori devono essere attribuite caratteristiche generazionali come il forte individualismo e spesso la paura o l’incapacità di costruire un legame affettivo stabile? Quanto ha contato nella loro vita il modello dei genitori/amici culturalmente molto diffuso o la giovinezza come condizione perenne e non più età della vita, cosa che è caratteristica della modernità?

E’ chiaro che la mancanza di lavoro o il precariato – è del 1 aprile 2006 il primo sciopero degli stagisti in molte città del vecchio continente, Berlino e Bruxelles ad esempio – sono fattori da tenere in considerazione per definire la personalità di generazioni che possono dirsi “no future” ma in altro senso rispetto a quello gridato dai Sex Pistols. Ma soffermarsi solo su questi fattori per individuare le cause prime di un disagio può apparire riduttivo e forse determinare un abbaglio, scambiare cioè gli effetti per le cause.

(Paul Klee, Polyphonie, 1930)

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