altre deportazioni

20 settembre 2010 di: Francesca Traìna

Da settimane si parla dei Rom che il presidente francese intende allontanare dalle città e dai confini della Francia. Una deportazione a mio parere, ma sulla gravissima questione permangono giudizi contrastanti. Il pensiero va ad una giovane donna macedone. Se ne sta lì da anni, ogni domenica, davanti ad una chiesa. Ci fa sentire, pesante, il senso di colpa di essere nati/e in un paese che lei, nonostante tutto, invidia o ama. Se ne sta lì, ogni domenica; gli occhi neri, scavati come le crepe della terra senz’acqua. Qualcuno si ferma, offre cibo e vestiti. Altre donne, uomini, bambini/e presidiano altre chiese con la mano sempre tesa. Proprio non riescono a mettersi in “regola” per un lavoro. Devono andar via. E poi l’accattonaggio disturba, mette a nudo la nostra “civiltà”. Rubano.

«Gli zingari rubano, è vero, però io non ho mai sentito dire – non l’ho mai visto scritto da nessuna parte- che gli zingari abbiano rubato tramite banca». Sono parole che De André lanciava provocatoriamente circa vent’anni fa e per gli zingari scriveva canzoni struggenti.

Nel suo ultimo album Anime Salve dedica a loro una delle liriche più belle e tristi: Khorakhané e canta il mondo dei diseredati e degli ultimi. Il pezzo narra della vita nomade dei Khorakhané, tribù Rom di provenienza serbo-montenegrina. «I Rom sarebbe un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2.000 anni», disse De André durante un concerto. Parole coraggiose e dure verso la società. Eppure loro sono lì da sempre, da prima del muro di Berlino, oggi comunitari come i Rumeni. I Rom sono senza casa e per questo liberi, privi di condizionamenti economici e sociali, canta De André. Il loro viaggio non ha una meta, anzi, gli zingari non si preoccupano nemmeno di averne una. Il loro eterno peregrinare è fondamento della loro cultura, del loro pensiero, del loro essere ed esistere.

Sentono più dignitoso allungare la mano e chiedere aiuto. Tutto questo ci rende impotenti e a disagio nei confronti della cultura del «prendere senza dare». In quelle realtà urbane dove maggiormente si avverte la presenza di nomadi, ogni discorso pretestuosamente umanitario è diventato vano perché la sicurezza sociale è un valore ed una conquista che non vanno mai sminuiti, né patteggiati, secondo i più.  Non posso che ricordare i versi che Brecht scrisse nel 1938:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,

e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Vashti Bunyan, la ragazza con il violino)

2 commenti su questo articolo:

  1. Elisa A. scrive:

    Necessario e indispensabile parlare delle nuove deportazioni per fermarle e fare qualcosa. C’è anche questa politica da portare avanti prima che sia troppo tardi. La poesia di Brecht e l’anno in cui l’ha scritta ci riporta a qualcosa di orribile già accaduto e che non deve mai più accadere. Mobilitiamoci in tempo.

  2. Fabio scrive:

    Toccante l’articolo e sveglia le coscienze. Impediamo altri olocausti, sono un cittadino normale e non mi intendo di politichese, ma so capire quando il limite si è raggiunto e la corda si sta spezzando.

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