gaffe di Capodanno, e c’entra la Regione

17 gennaio 2011 di: Marina Turco

Geraci, ultimo dell’anno. Lo spettacolo invernale delle Madonie è un regalo autentico. C’è l’odore della Sicilia migliore, quella che devi guidare fra i tornanti per vederla e che ti accoglie con un abbraccio, ti chiede scusa se è così complicato raggiungerla e si giustifica ammettendo che è solo grazie a questo che si è salvata dal cemento. Che bello, la città è distante. L’amore-dolore per Palermo si placa per un 48 ore stile vecchia leva militare. Il campo minato è laggiù, si può parlare con chi si vuole, conoscere chi si vuole, alleggerirsi dell’interrogativo perenne su chi hai di fronte.

La festa di fine d’anno è più bella del solito. Gli amici sono quelli di sempre, belli, morbidi, cucinieri e profumati di brodo. Ci sono anche altre anime in cerca di ossigeno rarefatto d’altitudine. Si chiacchiera rinunciando persino al bicchiere di vino in più, che ormai fa male sempre. La Regione: si parla di uffici, ozio, incarichi senza carico, dirigenze che non dirigono. La conversazione si fa a due. Parlano Uno e Due.

Uno sa che l’argomento è un po’ da bar. Parlare male della Regione è facile facile. Due ha un sorriso involontario e dice che alla Regione ci lavora anche lui, oddio, lavorare è una parola grossa: si fa ben poco. Ma come mai Due opera nel mastodonte? Gli è capitato e ha accettato. Uno ha meno intuito del solito, non coglie e non indaga. Palermo è lontana, a Geraci la mafia forse non ci viene perché la strada è complicata e d’inverno fa molto freddo. Ma Due sa chi è Uno, gli va di svelare. E’ stato imprenditore a Palermo, il padre era imprenditore. Uno è lenta, davvero. Estorce il nome e capisce. Ma non fino in fondo. Il sorriso di Due persiste via via che racconta quella vecchia storia di appalti finiti male, papà sofferente, un monumento da salvare, un pachiderma simbolo di tutte le lentezze palermitane, un fallimento, la stampa avversa, la politica che strozza, la mafia che vuole, pretende, minaccia. Uno rammenta a flashback, annuisce, in fondo fa anche finta di ricordare più di quanto ricordi. Ma si tradisce quando sfugge la domanda importuna, solito impulso: suo papà quindi morì sotto quel gran peso? Sorriso involontario, alias Due: «Mio padre è morto sparato. L’hanno ammazzato i corleonesi».

Uno è un’idiota, è un’immemore imperdonabile. E per non negare il piacere di una conversazione ha ferito quel sorriso involontario. La gaffe è compiuta. Cavolo, a Capodanno si può fare una domanda in meno! Piano b, ugualmente pericoloso. Chiedere, capire, dimostrare che la verità non dà imbarazzo. Un modo per scusarsi. I killer chi erano? Sono stati condannati? Uno sì, uno no: una vita per il processo, quindici anni per una sentenza. E poi l’impresa chiusa, lo strascico dei guai finanziari, il nome imbrattato, i conti da sanare, la battaglia burocratica per ottenere il riconoscimento di congiunto di vittima della mafia, quel posto alla Regione. Clamore zero, manifestazioni zero, notizie zero. E semmai silenzio. Due è quasi sconosciuto, non ha scritto libri, non partecipa, non commemora. Non. E basta. Ma perché? Perché anche il dolore finisce nelle grinfie della politica. Perché un padre non ritorna dopo i colpi dei killer, perché questo padre dalla politica era stato già ferito a morte e i corleonesi gli hanno solo dato il colpo di grazia. Sotto gli occhi dell’unico figlio.

(strada di Geraci, dall’album di Piotr Pedziszewski)

2 commenti su questo articolo:

  1. simona mafai scrive:

    Bell’articolo: di forma e di contenuto. Grazie, Marina.

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