bandiere in piazza, con fiducia e speranza

18 marzo 2011 di: Rita Annaloro

A 150 anni dall’Unità d’Italia a Padova gli italianisti scendiamo in piazza, trascinati dal fervore delle iniziative commemorative, che tornano a far rivivere il passato anche nelle storiche sale del Caffè Pedrocchi, dove una giovane attrice legge le lettere della Contessa Maffei, una delle protagoniste dei salotti culturali milanesi. E ci rendiamo conto che la storia siamo noi tutti, i tanti che hanno discusso, combattuto, partecipato, come facciamo oggi impegnandoci per difendere l’ambiente, il territorio dai barbari, dagli speculatori, dagli imbroglioni, da coloro che vogliono dissipare il patrimonio degli sforzi comuni.

«Dobbiamo ringraziare la Lega» diceva alla presentazione delle manifestazioni per i 150 anni il Sindaco Pd Zanonato, attaccato in giunta dai leghisti perché ha messo a disposizione dei profughi magrebini una caserma in disuso, «se la Lega non ci avesse portato a riflettere sull’unità del nostro Paese, non saremmo stati così consapevoli della sua importanza». E così per strada si vedono tante bandiere, esposte sui balconi, sui fili della luce, sulle spalle della gente che si ritrova in piazza, presso i banchetti delle varie associazioni, nonostante il freddo e la pioggia, sempre lì, sempre gli stessi o quasi, la generazione dei cinquantenni, a volte con figli o nipoti, più spesso a gruppetti, a volte sorridenti, altre volte cupi, attempati, stanchi.

Quand’è che potremo andare in pensione dalle piazze, sereni che il nostro compito venga portato avanti da altri? Chissà se la Contessa Maffei e i suoi amici non vedevano l’ora di cedere a qualcuno il loro posto. Forse no, forse nell’Ottocento c’era più fiducia e speranza, sicuramente il giorno dopo un evento storico non si andava a lavorare.

5 commenti su questo articolo:

  1. tanio scrive:

    E gia’, ma se la vita e’ lotta (in senso lato, NdR), non potremo mai andare in pensione finche’ saremo in vita. Altra cosa sarebbe la piu’ che legittima aspettativa di essere sereni, prerogativa che ci viene negata sempre piu’ spesso e che ci svantaggia rispetto ad altri popoli di paesi che condividono col nostro simili stili e culture.

  2. Rosanna Pirajno scrive:

    Per difetto di comunicazione, ci troviamo in ritardo rispetto alla ricorrenza cui si riferisce la lettera di Paola Zaccaria, docente di Letteratura all’Università di Bari. La pubblichiamo ugualmente come manifestazione di un disagio che potrebbe essere condiviso, o da cui dissentire.

    Nonostante tutto, oggi «la mia finestra non ha bandiere, il bavero del mio giubbotto sportivo non ha nessun nastro rosso-bianco-[verde]. Invece, piango per una città e per il mondo. Invece mi tengo stretta ad un altro tipo di lealtà, affermando la mia non-bandiera, il mio non-anatema, la mia non-preghiera, … se questo è tradimento, possa io esserne degna».
    Ho preso in prestito le parole di Robin Morgan all’indomani del crollo delle Twin Towers per esprimere i miei sentimenti di non lealtà a concetti come patria e nazione, pur non disconoscendo la lotta degli antenati. Volerci imbrigliare nell’unità nazionale quando questo stato- nazione (e molte altre “democrazie”) è più che mai gerontocratica, violenta, oligarchica e ginefobica mi sembra, con tutte le buone intenzioni, ancora un atto di non riconoscimento della (nostra) differenza.

    E poi non tiene assolutamente conto, questa richiesta di sentirci nazione, della messa in discussione, ad opera di donne e di “strani” di tutto il mondo, del concetto di patria-nazione-stato quando è fondato sul fortificare e serrare le porte dei privilegiati, costruire muri attraverso il Mediterraneo, tenendo navi al largo, nella tempesta. Vergogna, vergogna per questo stato, ecco cosa sento. Ma non voglio sentirmi impotente, non lo voglio più. Per me il mio paese è il mondo, come disse Virginia Wolf. E il mondo non ci piace, in questo momento storico non ci piace affatto. E tuttavia aprendo le porte dei miei sentimenti politici al mondo, anziché alla nazione, io (privilegiata) riesco ad attraversare i muri dei respingimenti nell’altra direzione, e stare simbolicamente (e tra breve spero non solo simbolicamente) dalla parte dei rinnegati, rifugiati, fuggiaschi, apolidi, giovani, resistenti, la vera espressione di impeto verso la libertà dei nostri tempi.

    Buon non-giorno-delle bandiere.

    p.s.: «le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima per cellofanare la mente della gente e poi come sudari cerimoniali per avvolgere i morti» (A. Roy, 2002).

    Paola Zaccaria

    • Rita Annaloro scrive:

      Anche a me piacerebbe un mondo senza bandiere, nè uniformi e soldati pagati per difenderli, ma in un momento di disgregazione e caos nazionale e internazionale dove si rischia di avallare solo la legge del più forte e del più furbo, l’idea di non tornare indietro al Medioevo, ma di proseguire un cammino comune, almeno in questa penisola, mi sembra importante.
      La mia non è una difesa patriottica del nazionalismo, ma, come si dice oltre il Pò, un ribadire un’identità comune, che guardi al futuro e possa anche inglobare realtà diverse, come l’integrazione con popoli limitrofi e non.
      A volte ciò che gli acculturati danno per scontato è totalmente lontano dalla pancia della gente, succube della propaganda governativa che li porta dove vuole, e penso che stia anche a noi fare la nostra parte per vivere in un mondo migliore.

  3. Lucilla Blaschi scrive:

    Condivido pienamente la riflessione/commento di Paola Z.
    Anche per me ” il mio paese è il mondo” come già scrisse Virginia W. e per le ragioni che Paola, con molta fermezza e sapienza, scrive e nelle quali mi riconosco. Grazie Paola di avere espresso sentimenti e pensieri anche di chi, come me, è distante dalla “retorica” tricolore.

  4. sonia trincali scrive:

    brava Rita il tuo articolo ha dato possibilità di replicare ma io che non ho mai amato termini ne bandiera sono contenta che gli italiani in nome di qualcosa si sono sentiti uniti. in questo momento questo è necessario.

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