le luci rosse di Amsterdam

29 luglio 2011 di: Ornella Papitto

Eravamo alla ricerca della Oude Kerk (vecchia chiesa). Pioveva, avevamo fretta di arrivare per timore di trovare il portone chiuso. Ci avviciniamo alla piazza della chiesa e vedo tre donne di origine africana, seminude, possenti, una di loro fumava vistosamente un sigaro. Ci guardavano con distacco, con disgusto, noi, due donne e due uomini, alla ricerca della chiesa vecchia. Mi rendo subito conto che siamo all’interno del quartiere a luci rosse. Distolgo subito lo sguardo, mi vergogno e corro avanti. Poco dopo incontro un’altra vetrina: quattro donne, di cui una giovanissima, bionda ed esile, che iniziano muoversi, ad agitarsi come prendessero vita in quel momento davanti ai nostri sguardi inebetiti. Distolgo ancora lo sguardo; non ricordo le facce, ricordo quel corpo esile di quasi-bambina, stretto in uno slip minuscolo. Era lì, l’unica ferma delle quattro donne. Ero sempre più imbarazzata. Non era nei miei piani andare nel quartiere a luci rosse. Mi sono ritrovata in un luogo estraneo. Osservata, come se fossi io in vetrina. Una brutta senzazione. Mi sentivo fuori luogo. Non era il luogo che stavo cercando. Arriviamo accanto alla Chiesa e di fronte all’ingresso laterale, all’altro lato della strada, una giovane in vetrina, con slip e reggiseno verde mela, tatuata, fumava con noncuranza mentre un’altra donna chiudeva la tendina perché era entrato un cliente. Tutto questo, sotto la pioggia, davanti agli occhi del giovane, forse sacrestano, che ci diceva che non potevamo entrare perché dentro era in atto la funzione religiosa.

Uno davanti l’altra. Senza scalpore. Con naturalezza, come fosse la cosa più ovvia convivere uno di fronte l’altra. Ma non ero scandalizzata. Mi sentivo colta di sorpresa. Era la loro attesa che mi colpiva. L’attesa del cliente di turno. Stare lì, aspettando. La sentivo come una follia, l’attesa, non l’atto sessuale, ma l’attesa. Un’attesa vuota: fumare, agitarsi al passaggio, guardando i passanti. Per quanto tempo durante una giornata? Un’altra ragazza, più in là, si piastrava i capelli lunghi neri. Dietro la vetrina. Come guardare dentro il bagno di un’estranea.

Poi inizio a riflettere. Penso all’attesa, penso alla pigrizia che le teneva occupate. All’immobilità e men che mai all’atto sessuale. Erano delle estranee, per me. Lontane dall’operosità quotidiana, divisa tra famiglia, lavoro, casa. Mi sembrava che la causa di tutto fosse la pigrizia, quel “peccato capitale” definito “accidia”. Le immaginavo soprattutto pigre. Talmente pigre da non desiderare altro che non fare nulla, attendere, aspettare e ottenere, in breve tempo, un risultato economico elevato.

Non riesco a definirle “lavoratrici”. Mi sento offesa dalla loro disponibilità all’immobilismo facoltoso. Non esiste nessuna forma di lavoro che dia questi risultati. Non mi permetto di formulare un giudizio morale o moralistico, ma etico, sì. Non mi piacciono le persone pigre. Non mi piacciono le persone che cercano scorciatoie. Non mi piacciono le persone che mistificano. Non mi piacciono, né gli uomini, né le donne, che concentrano sul sesso a pagamento, il loro appagamento.

1 commento su questo articolo:

  1. Rossella Caleca scrive:

    Anch’io ho visto qualcosa di simile ad Aachen(Aquisgrana) proprio vicino alla famosa Cappella Palatina: abbiamo imboccato per sbaglio una stradina e “loro” erano lì, direttamente affacciate alla finestra, ad “incoraggiare” i passanti. Ricordo che ho provato un misto di tistezza e vergogna. Ma non sappiamo che cosa le ha portate lì. Credo poco alla libera scelta. Alcune avranno, certo, la possibilità di vivere diversamente, e non lo fanno: ma sarà solo per pigrizia? Una volta le “case” erano chiuse, ora hanno finestre aperte e vetrine. Ma non è cambiato niente. Lo sfruttamento reciproco (ma molto più da parte degli uomini) rimane.

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