schiavi a sud e parun a nord

19 luglio 2011 di: Rita Annaloro

E’ possibile che anche quando tutto cambia in Sicilia, come nel caso del feudo di Tudia, stando al reportage di Attilio Bolzoni apparso su La Repubblica del 3 luglio, la rappresentazione iconografica continua a ribadire i beceri stereotipi de “L’Africa in casa” corredata da immagini di vecchi sdentati con e senza coppola e/o baffi? I “servi” dell’occhiello vengono poi nel testo definiti schiavi, fuggiti in massa in Europa negli anni 960-970 e il grande titolo “Conversazione in Sicilia” suggerisce un’immediatezza smentita solo da una lettura accurata dell’articolo.

In un’epoca segnata dalla “riscoperta” storica del territorio, sicuramente l’approccio piace, soprattutto ai lettori del Nord, sia perché alimenta le favole di Camilleri sia perché conferma i pregiudizi verso il Sud. Ma perché sui quotidiani nazionali non vediamo mai paginoni sull’arretratezza delle langhe di Pavese e nessuno ci ricorda che fino alla seconda guerra mondiale, nella gloriosa marca trevigiana veniva praticato lo ius primae noctis?

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