gli estremi della personalizzazione

16 settembre 2011 di: Silvana Fernandez

Credo sia pertinente dire «c’era una volta» se è un tempo in cui posso collocare anche me ragazzina, quando affermare – è una/o come gli altri – era dispregiativo, senza sapere che dopo pochi anni sarebbe stato un pregio. Nel sessantotto un eskimo ti definiva subito di sinistra, se avevi pure le scarpe, anfibi di ordinanza, eri considerato di estrema sinistra. Come se un’ideologia potesse risiedere nei piedi e come se da là potessero partire le migliori idee. Se invece di idee ne avevi, anzi ne ostentavi pochine, bastava il tale giubbotto per definirti paninaro, una ciocca scura sugli occhi circondati di nero era come proclamare: sono triste – dunque un Emo. Insomma per vivere in un contesto era necessario farsi riconoscere non per quello che eri, ma per la divisa che indossavi. E sinceramente, anche se non era un’uniforme imposta dallo Stato o da una prigione, a me facevano tutti tristezza. E la cosa tragica è che ci siamo quasi tutti omologati ai gusti di massa. Un esempio è l’estate: o sei al mare, con pelle livello colore etiopico, o sei un’asociale.

Insomma o fai le cose che piacciono agli altri o vai dallo psicanalista, o magari un Prozac può andar bene. Ma improvvisamente, malgrado noi o forse a causa nostra, qualcosa è mutato: i giornali gridano, a tutta pagina, che i giovani migliorano, cercano una loro dimensione perché pretendono di portare oggetti personalizzati con le proprie sigle e magliette con la propria fotografia! Gira fra i pettegolezzi più rumorosi il caso di una famosa avvocata che al furto della sua Kelly, (tipo di borse tutte uguali, abbastanza desolanti), confessa che il prezzo che ha pagato è di 24.000 euro perché l’aveva fatta personalizzare. Una Kelly personalizzata? Da tempo si preferiva aspettare anni per avere questo trapezietto con il manico, uguale a tutti gli altri, perché ti si definisse ricca e di buon gusto. Ma questa notizia gossip puro, dove la ristrettezza morale e la ricchezza effettiva delle parcelle della professionista vengono messe bene in luce, assume il valore di un annuncio. La notizia gira e ci si chiede se ognuno voglia un’individuazione personale con un proprio anagramma. L’errore che sorge è però evidente: si scambia il desiderio di personalizzare con la necessità di individualizzarsi da cui siamo ancora lontani, volere mettere un tuo timbro su un oggetto per dimostrare che è nostro è un azione di possesso, non di individuazione, ma in questi ultimi mesi tanto è veramente mutato nei giovani e meno giovani. Vi sono segni che ci fanno pensare che le idee e i valori tornino, non abbiano più feticci per vessillo. La primavera araba porta morte e distruzione in molti paesi, ma porta anche il grido «libertà» che forse non sarà attuata ma almeno è gridata. Gli indignados non indossano tutti il medesimo giubbotto, nessuno si è occupato delle loro scarpe, ma l’indignazione è uguale per tutti. Possiamo tirare un sospiro di sollievo: forse stiamo per rimpossessarci dei valori, invece di dare valore ad oggetti deteriori e facilmente deteriorabili.

3 commenti su questo articolo:

  1. eugenia scrive:

    Non sono della stessa idea personalizzare è già un passo avanti per individuare se stesso anche in un oggetto.

  2. ornella papitto scrive:

    Ma chi è il Soggetto?
    La Persona, o come in questo caso la “kelly^? Come possiamo credere di individuare noi stessi in un oggetto? Certo si fa prima! Siamo noi che diamo forma agli oggetti e non loro a dare consistenza a noi.

  3. Silvia scrive:

    Mi sembra assurdo e provocatorio questa contraddizione di Eugenia ma davvero si pensa ancora che un oggetto rappresenti noi? Non vorrei citare il vecchio libro AVERE O ESSERE ma mi sembra la base di un ormai ovvio pensiero, scopro invece che non è ovvio e che nell’ epoca berlusconiana avere od essere sono la medesima cosa, secondo eugenia e tanti altri, forse da quà sono cominciati tanti guai!

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