la Berlinale dal vivo

7 marzo 2012 di: Rita Calabrese

Un festival annunciato al femminile, con la presenza di dive, del calibro di Maryl Streep, premiata alla carriera di cui è stata trasmessa una retrospettiva completa, di Angelina Jolie al debutto da regista, della gloria nazionale Diane Krüger, ha visto invece vincitori i fratelli Taviani con l’unica opera italiana in concorso, “Cesare deve morire”. Bene, ma non al punto da meritare l’Orso d’oro, il giudizio degli scornati critici locali, che avevano puntato sulla pellicola tedesca “Barbara”. Come il pubblico italiano avrà modo di verificare al di là di ogni campanilismo, si tratta di uno straordinario docufilm che presenta le prove della messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti condannati a pene fino all’ergastolo, anzi secondo la dizione ufficiale ”fine pena mai”. E i dilettanti attori si dimostrano adeguati al compito, conquistati a poco a poco dalla forza della poesia, dal suo magico potere di rappresentare il mondo e le passioni («Quante volte questa storia verrà narrata da lingue che ancora non esistono») e di conferire umanità e possibilità di riscatto anche al più feroce assassino («dopo l’incontro con l’arte questa cella è diventata un carcere»), mentre i versi immortali di Shakespeare espressi nelle parole semplici e antiche dei diversi dialetti diventano carne, sangue, vita.

L’aggettivo spesso usato dai giornali, “vecchio”, riferito sia al film che agli attempati registi, assume un più profondo significato. Tra le centinaia di opere presentate un tratto sembra imporsi decisamente come una tendenza più generale. Il bianco e nero in cui sono girate le prove nel film vincitore – mentre la recita finale riprende colore – ed anche il film portoghese “Tabu”, non diversamente dal delizioso “The Artist”, trionfatore agli Oscar, costituiscono un omaggio al cinema come arte ormai indiscussa del XX secolo che continua la sua corsa trionfale, come appare esplicitamente anche in “Hugo Cabret” di Scorsese, esplicito omaggio al pioniere Georg Méliès.

Anche al di fuori della Berlinale sembra quindi farsi sempre più evidente la necessità di fermare la corsa forsennata e spesso insensata del presente per guardare indietro, e di provare nuove forme di pensiero e di visione della realtà dalla rilettura del passato. In tal senso si può interpretare come vitale, ma non nostalgico, nell’ambito del festival berlinese il “ritorno al passato”, alla Rivoluzione Francese vista dall’inedito sguardo della lettrice di Maria Antonietta in “Addio alla regina”, alla realtà della Germania divisa di “Barbara”. Non diversamente la retrospettiva per i 100 anni degli studi di Babelsberg, avanguardistica industria cinematografica tedesca che il nazismo svuotò di talenti, da Marlene Dietrich ai registi Murnau, Pabst, Lang, Wilder che fecero poi grande Hollywood, e la rassegna di film russi degli anni Venti con capolavori ritrovati, quali “Ottobre” di Eizenstein e “La rivolta dei pescatori”, tratta da un racconto della mia amata Anna Seghers.

Oltre la possibilità di riscoprire se stesso ed il passato, il cinema ha dimostrato così anche di potere fissare continuamente il presente con i numerosi film dedicati alle rivolte dei paesi arabi ed a un Iran meno convenzionale, ma anche a vecchie e nuove tragedie come la persecuzione dei sinti e rom nell’Europa contemporanea, l’atrocità di bambini e bambine-soldati, le emigrazioni in tutte le direzioni, le realtà sconosciute di paesi africani, asiatici, sudamericani, i conflitti dimenticati. In tal senso “Cesare deve morire”, insieme a “Diaz. Don’t Clean up this Blood” di Daniele Vicari, sconvolgente ricostruzione dei fatti del G8 di Genova, sembrano segnare finalmente con il cinema “civile” il ritorno in Italia della capacità di indignarsi. Nel filone di denuncia si può inserire anche il film della regista Malgoska Szumoska, “Elles”, con una stupenda Juliette Binoche, giornalista parigina che, indagando il fenomeno della prostituzione di giovani donne per pagarsi gli studi, con un atteggiamento dapprima di distacco, ma privo di pregiudizi, instaura con loro un rapporto di ascolto e riflessione su di sé fino a mettere in discussione la sua vita ordinata. Gli uomini – dal figlio, al marito, ai variegati clienti delle ragazze – fanno una gran magra figura, prepotenti e deboli bambini mai cresciuti. Se, riprendendo un vecchio slogan del femminismo tedesco, una donna ha bisogno di un uomo come un pesce della bicicletta, alla fine, magnanimamente, i maschi sembrano poter servire almeno ad aprire i barattoli della marmellata a colazione.

1 commento su questo articolo:

  1. rita annaloro scrive:

    grazie della panoramica che ci hai offerto, che ci permetterà di “prendere al volo” i film interessanti che hai citato, quando li
    faranno passare nelle sale di provincia.

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