non è Belen, lo scandalo

10 marzo 2012 di: Fortunata Pace

Ci andavo pensando per conto mio da qualche tempo. Ma la riflessione di un’amica antropologa a ridosso dell’8 marzo – data che resta e che serve se riusciamo davvero a renderla utile a noi e agli altri, e non sto dicendo semplicemente alle altre – me la rende forse più organica e senz’altro più impellente: quanto pagano tante, troppe donne, in termini di salute, di serenità, di dignità e addirittura di vita, il contenuto di riconoscimenti e di leggi in loro favore? Anni di battaglie, piazze gremite, subendo gruppi di gente più o meno palesemente ostile, studi e progetti per guadagnare l’attenzione del legislatore, dibattiti a catena col rischio di slogan banali e di superficialità diffuse! Davvero anni che la memoria non cancella.

Poi nuove norme di grande respiro sul diritto di famiglia, – scioglimento civile del matrimonio, controllo delle nascite etc – eliminazione del delitto d’onore, ingresso delle donne a lavori prima preclusi e la possibilità di mettere in luce meglio e di più capacità e meriti. E non è che stiamo pensando alle atlete in testa alle classifiche, alle scienziate, alle ministre, alle sindacaliste, alle capitane d’industria che per fortuna per adesso ci sono. O alle grandi attrici o alle donne di spettacolo. E per queste ultime dovremmo forse considerare che se, per fortuna o per altro, giocando la carta del loro corpo, conquistano notorietà e ricchezza, spesso hanno fatto una scelta e il tatuaggio all’inguine non li rende vittime né deve assolutamente emarginarle. Stiamo parlando di Belen, che è bella e probabilmente ricca e dotata quindi di un suo potere. Davvero un allegro e spregiudicato simbolo, per dire di un percorso della donna di cui parlare in qualsiasi momento senza scandalismi di sorta.

Piuttosto è alle altre, tante altre, donne con una vita qualunque, normale, che hanno avuto un marito, un compagno, dei figli, un lavoro pesante in casa e fuori, alle quali dovremmo fare attenzione. Donne giovani, meno giovani che credono in una loro libertà. E muoiono, ammazzate! Hanno detto no ad un uomo, ne hanno a volte scelto un altro, hanno avuto una ribellione. Hanno reagito a prepotenze, a violenze, a soprusi, a stupri e… sono state brutalmente picchiate o addirittura uccise! Incredibilmente vittime di leggi nate in loro favore.

E sta qui il nocciolo amaro della questione. Solitamente. Così la legge muta e si evolve nel tempo, a misura di una esigenza, di una richiesta sociale sempre più chiara e pressante. Anzi, talvolta, è così veloce il mutamento della società che la “norma” tarda a mantenersi al passo. Ma evidentemente così non è.  A tallonare il legislatore non è mai, né potrebbe, una società intera il cui identikit non risulta reale nelle sue componenti. La donna subalterna, la donna priva di ogni diritto, non dava alcun fastidio. Si poteva abbandonare, tradire, vessare ma non era necessario ucciderla. Oggi invece la casistica delle donne uccise da un uomo – padre, marito, amante, fidanzato o ex – si fa impressionante.

Una buona legge fallisce quando una fascia pesante di società maschilista non solo non la intende, ma la vanifica, anzi la stravolge perché ritiene o avverte nel peggiore dei suoi istinti, che ogni parità della donna stravolga, a sua volta, il posto privilegiato che da sempre ha ritenuto di dover possedere.

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