Salvatore, Afzal, Giuseppe, umanità al centro ascolti

16 giugno 2016 di: Clara Margani

Stanno vicinissimi ai due lati del portone d’entrata del Centro Ascolto della Caritas in via delle Zoccolette, a Roma. Uno a destra e uno a sinistra. La posizione è scomoda, l’uno appoggiato al muro, l’altro in piedi a gambe larghe vicino a una camionetta blindata dell’esercito.

Sono giovani e belli; uno tutto impettito indossa una tuta mimetica, l’altro una tuta da ginnastica e sopra una felpa un po’ scolorita su cui campeggia il logo della squadra della Roma.

Avranno la stessa età, tra i 20 e i 25 anni, lo stesso colore di capelli e di occhi. I capelli sono ricci e scuri, l’incarnato olivastro, dove gli occhi scuri dalle ciglia folte disegnano un’espressione interrogativa e rassegnata al loro stato. L’uno è nato nel Sud d’Italia, l’altro in un lontano Est. Non parlano tra loro perché l’uno non conosce la lingua dell’altro e nemmeno conoscono correttamente quella della nazione a cui appartengono. Sono più a loro agio nel dialetto del posto dove sono nati, quello della famiglia, degli amici, degli amori.

Afzal ha un biglietto in mano, è uscito dall’ufficio per prendere una boccata d’aria fresca e aspetta il suo turno per chiedere un pasto o un posto letto. Salvatore imbraccia un fucile e aspetta che un suo collega venga a dargli il cambio. Jasmina e Rosa li aspettano nel luogo dove sono nati; la loro foto è nel portafogli. In quello di Salvatore c’è anche un santino del santo protettore del suo paese. Afzal ha nella tasca dei pantaloni un piccolo Corano.

Da bambini avrebbero potuto giocare insieme nello stesso cortile per catturarsi l’un l’altro e liberarsi reciprocamente con una risata infantile dopo l’effimera conquista. Ma non è stato così. L’uno difende, l’altro è quello, pare, da cui bisogna difendersi.

Ma ecco che dal portone esce Giuseppe, che svolge il servizio civile nel Centro Ascolto della Caritas. Si è laureato da due anni ed è alla costante ricerca di un lavoro anche precario. E’ contento intanto di poter essere utile alle persone che chiedono aiuto al Centro Ascolto. Si rivolge ad Afzal e gli chiede se ha il numero 10, gli stringe la mano, gli dice il suo nome e poi con un gesto gentile lo invita a seguirlo nell’ufficio. Nel passare accanto a Salvatore gli fa un buffo saluto militare, che provoca nel militare una risata contenuta ma spontanea. Anche Afzal ride e scambia con Giuseppe e Salvatore un’occhiata di complicità. Per un attimo sul portone del Centro Ascolto il tempo si è fermato.

5 commenti su questo articolo:

  1. Emiliana scrive:

    Ho letto con piacere questa storia di umanità in un mondo ormai privo di essa. Mi chiedo: è una storia vera o una favola? Se fosse vera sarebbe bellissima.

  2. Tiziana scrive:

    La presenza di soldati davanti ai luoghi dove i migranti ricevono aiuto e solidarietà è stata determinata dal clima di tensione per gli attentati e dalla necessità di controllare e prevenire.. E’ sicuramente doveroso da parte dello Stato, ma determina negli utenti paura e preoccupazione. Se l’episodio che racconta Clara Margani è avvenuto davvero, vuol dire che c’è ancora speranza di una vita migliore per i giovani e anche per i meno giovani coinvolti.

  3. silvia scrive:

    Per cambiare atteggiamento, forse sarebbe sufficiente capire ciò che Papa Francesco ha sintetizzato in modo molto efficace: i migranti non sono un pericolo, ma persone in pericolo. Ringrazio Clara per avercelo ricordato!

  4. Carla scrive:

    Parlo spesso con i giovani militari di guardia…..non sanno che attività sono svolte nel Centro e mi fanno domande con occhi curiosi ed intelligenti.
    Ecco, proprio qui dietro di voi, entrando da questo portone, c’è una scuola d’italiano per migranti. Noi siamo tutti volontari.
    Mi dicono stupiti: chi l’avrebbe mai immaginato? Siete bravi….
    Una giovanissima soldatessa confida di essere laureata in lettere: ha studiato per insegnare e spera di non dover sempre imbracciare quel fucile. Mi chiede se possa anche lei entrare nella nostra scuola come insegnante volontaria.
    Le “strade sicure” sono quelle lastricate di reciproca conoscenza e solidarietà. Un lavoro paziente e continuo.

  5. gemma scrive:

    Clara, attraverso il suo articolo, che è frutto della sua osservazione del mondo come una macchina fotografica, raccontando in immagini frammenti del nostro quotidiano, ci invita a vincere l’indifferenza, metterci in gioco e guardare oltre, ci offre un’occasione per fare pace.

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