Quei piccoli borghi e la nostra identità ferita dal “Corriere della Sera” del 28.10.16

28 ottobre 2016 di: Alo Cazzullo

…Una classe dirigente locale di sindaci che hanno la fiducia delle loro comunità. Un Paese che resiste. Questo non cancella, anzi acuisce la rabbia per la trascuratezza con cui si è costruito in questi anni, con cui si è abbandonata la cura del territorio. L’indignazione è sempre un sentimento positivo, se si accompagna alla capacità di reazione.

Il terremoto ci riguarda non solo perché si è sentito in mezza Italia. E non solo perché la paura e la resistenza esprimono bene il sentimento collettivo dell’epoca che ci è data in sorte. Se paesi che non avevamo mai sentito nominare ci appaiono familiari, come ha scritto Emanuele Trevi sul Corriere, è perché l’identità nazionale è più profonda di quel che pensiamo. Perché siamo quasi tutti nipoti di contadini o di artigiani, e quindi quei borghi ci appartengono. Ci sentiamo un po’ tutti cacciati da casa, nel vedere le immagini degli sfollati, tra cui moltissimi anziani, che dividono un tetto provvisorio con i figli degli immigrati, i nuovi italiani. E le crepe che si allargano nei muri delle torri e delle chiese ci ricordano l’affresco del Cattivo Governo, in cui Ambrogio Lorenzetti mise in guardia i senesi dalle conseguenze della discordia e dell’inerzia.

Ricostruire «com’era e dov’era» — come fecero i veneziani con il campanile di San Marco, come hanno fatto i frati e i restauratori di Assisi con gli affreschi di Cimabue nella basilica di San Francesco — non diventa soltanto un fatto urbanistico, ma una scelta di civiltà. Raccogliere la richiesta d’aiuto delle popolazioni colpite è anche il modo per rispettare noi stessi, per ricordarci chi siamo e quel che possiamo ancora fare.

L’Italia può imparare a convivere con il terremoto se avrà i mezzi morali e materiali per riparare i danni e prevenire quelli prossimi venturi. Questo richiede un grande piano di investimenti pubblici e privati, che può essere un’occasione non solo per mettere in sicurezza il territorio ma per ricucire il tessuto sociale, ripopolare i borghi, far vivere i centri storici, riportare fiducia nell’avvenire. Se l’Europa non lo capisse, se non si rendesse conto che la preoccupazione e l’urgenza sono la cifra dell’Italia di oggi, se l’arroganza burocratica di Bruxelles ostacolasse anziché aiutare, il discredito che già ha accumulato lasciandoci soli nell’accoglienza ai migranti si farebbe irreparabile.

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