Anne Clémence De Grolée, un’isola tutta per sé

23 febbraio 2017 di: Rosanna Pirajno

Anne Clémence De Grolée è artista di grande sensibilità e di altrettanta riservatezza, tanto che ogni sua mostra è una sorpresa, una rivelazione di sentimenti, intuizioni, pensieri, denunce sommesse, incarnati dalle forme che dispone alla vista in modi, anche questi, imprevedibili e sorprendenti: per terra, sospesi alle pareti, fluttuanti in aria, poggiati su mezzi di fortuna, in teorie “ammatassate” in ombra, nel silenzio di stanze spogliate di antiche memorie. E i materiali e le tecniche, tra i più disparati: dalle chine su carte raffinatissime ai metalli alle pietre ai collage di foto ai fili intrecciati alle terrecotte ai legni spiaggiati delle barche migranti … linguaggi diversi mediante cui Anne Clémence articola da sempre il suo coerente discorso artistico.

L’esordio avviene alla fine degli anni novanta, lei da pochi anni trasferitasi a Palermo che osserva con curiosità benevola facendosi notare da quella fine cacciatrice di talenti che fu Franca Prati, gallerista di grande intuito «sempre attenta ai nuovi nomi da affiancare agli artisti ormai storicizzati» – come scrive Paola Nicita nel ricordarne la scomparsa giorno 11 ottobre 2016 – che per prima la propone fra i talenti emergenti di Andrea Di Marco, Fulvio Di Piazza, Juan Esperanza.

Di A.C. De Grolée hanno scritto, benissimo come merita, nel catalogo edito da Torri del Vento, Giusi Diana, Antonio Di Lorenzo, Antonio Leone, Giulia Ingarao curatrice della personale “Une île a soi. Vent’anni di ricerca in Sicilia” che sarà inaugurata il prossimo 3 marzo alla Gam,  seconda tappa dopo il Museo Arte Contemporanea di Racalmuto dove è stato dato maggiore spazio alla esplorazione dell’identità femminile.

Alla Gam vedremo più sviluppati i temi della città e del degrado ambientale che l’avviluppa, e quello del dramma della migrazione su cui la sua ricerca si è soffermata da tempo, almeno da quando espose per il ventennale di Mezzocielo il mare delle barchette di leggenti spiaggiati.

Sono appunto venti anni che l’artista vive, come lei stessa dice, «in una situazione ambivalente di ospite ed osservatore, ossia partecipe ed insieme testimone di una cultura familiare eppure a me estranea come quella siciliana», che le permette di interpretare con un misto di partecipazione e distacco la realtà di una terra contraddittoria come la Sicilia, in cui intinge il pennello – questo sì, metaforico – della sua ricerca espressiva.

Da osservatrice ho sempre ammirato la sua poetica lineare, la grazia sussurrata di cui riveste denunce anche troppo evidenti, l’ariosità delle sue istallazioni, specie di quelle ludiche di cui ho esperienza diretta, o piuttosto il rimpianto di non aver saputo superare l’impasse burocratico che privò il Giardino della ex Fonderia Reale, e la città, delle raffinate composizioni che aveva ideato per la voce “opere d’arte”, malauguratamente rimaste sulla carta.

La personale ci mostrerà, come recita il comunicato, lungo due tappe espositive «una produzione sfaccettata che svela meccanismi creativi e ossessioni tematiche di una ricerca complessa e raffinata in cui convergono tutti i temi cari all’artista: dalle problematiche legate al corpo e all’identità femminile, al degrado ambientale e all’immigrazione, fino a temi più recenti come quello della memoria individuale e collettiva».

Alla Gam, il 3 marzo alle 18, per immedesimarci nel percorso creativo di un’artista con animo da antropologa comprensiva.

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