Ci vuole fegato dal “Corriere della Sera” del 10.03.17

10 marzo 2017 di: Massimo Gramellini

Era cominciata male, malissimo, con un tumore al fegato che lo aveva strappato alla famiglia e alla fabbrica per rinchiuderlo in un ospedale a contare i mesi che lo separavano dalla fine. Era continuata bene, benissimo, con il donatore compatibile, il trapianto riuscito e il ritorno a casa e ai progetti, tra i quali spiccava il momento in cui, esaurita la convalescenza, si sarebbe ripresentato nella sua officina alle porte di Torino. Invece era andata male, malissimo. Lo avevano bloccato all’ingresso come un postulante, lui che lavorava lì dal 1990, quando c’erano ancora le lire in tasca, Andreotti al governo e Schillaci in Nazionale. Qualche funzionarietto con le mani sudate gli aveva spiegato che, dopo 27 anni, dell’operaio Antonio Forchione non sapevano più che farsene, specie ora che non avrebbe più potuto respirare i fumi e le polveri dell’officina. Lui aveva inghiottito l’amor proprio e si era proposto almeno come fattorino. Gli avevano detto di no. Allora era andata peggio e peggio. Quell’uomo appena restituito all’onore del mondo si era sentito un osso spolpato da gettare nei rifiuti. Non gli avevano negato soltanto uno stipendio, ma un ruolo nella società. Avendo già rimontato la vita una volta, sapeva che non avrebbe avuto la forza di farlo di nuovo. Così i suoi colleghi hanno deciso di rimontare insieme. Hanno scioperato per lui ed è andata bene, benissimo, perché ieri l’azienda con sede in Svizzera ha ritirato il licenziamento. Ce lo ha appena ricordato il Barcellona: nessuna rimonta è impossibile quando funziona il gioco di squadra.

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