Le scuole italiane e il tabù della bocciatura dal “Corriere della Sera” del 28.04.17 di Ernesto Galli della Loggia

28 aprile 2017 di:

«Se tutti gli studenti avessero i voti che meritano non verrebbe promosso più del 20 per cento». Spetta a un professore di un istituto tecnico commerciale pugliese il merito di aver ancora una volta portato alla ribalta nel modo più clamoroso, con queste parole (Corriere, 23 aprile), la grande menzogna su cui si regge da anni il sistema dell’istruzione italiano: le promozioni d’ufficio. Proprio perché il suddetto professore non stava al gioco, e viceversa dava ai suoi studenti i voti che meritavano, il dirigente della scuola dove insegnava lo ha sospeso a suo tempo dal servizio: sanzione disciplinare che adesso, dopo ben cinque anni, il giudice del lavoro di Lecce ha però annullato dandogli ragione. Le cose in effetti stanno così: nelle scuole italiane la bocciatura è di fatto bandita, così come è bandito ogni autentico criterio di selezione e quindi di reale accertamento del merito. Gli abbandoni scolastici beninteso ci sono (ad esempio negli istituti tecnico-professionali), ma hanno una spiegazione di altro genere, perlopiù legata alla condizione socio- culturale dell’ambiente familiare. Di fatto, dunque, chi nel nostro Paese inizia il corso di studi è pressoché matematicamente sicuro di arrivare al traguardo. E infatti gli esami di diploma finale fanno regolarmente segnare percentuali di promossi che da anni sfiorano il cento per cento (in che senso possa essere considerato tecnicamente un «esame» una prova che dà abitualmente risultati simili resta per me un mistero)…..

Ma a che cosa serve un sistema d’istruzione simile, che non valutando contraddice ogni idea sensata d’insegnamento e di apprendimento? Serve a una cosa soprattutto: a sollevare da ogni responsabilità i partiti e la classe politica, in particolare chi governa; a liberarli dai problemi, dalle proteste e dalle accuse, dalle rivendicazioni, che per due, tre decenni li hanno tormentati ogni volta che in un modo o nell’altro c’entrava l’istruzione. Rinunciando a istituire una scuola che seleziona in base al merito — e dunque, inevitabilmente, che boccia (una parola poco simpatica, ma un altro modo e un’altra parola, ahimè, ancora non sono stati inventati) — essi riescono a dare a credere, specie alla parte meno avvertita dell’opinione pubblica, che ormai esiste finalmente una scuola davvero democratica. La quale, cioè, riuscendo a tener conto delle esigenze anche dei più sfavoriti, porta in pratica tutti gli iscritti al positivo compimento degli studi. E dando a credere che si è così realizzata anche la più importante funzione dell’istruzione nelle società democratiche: quella di rompere i vincoli dell’appartenenza di classe per nascita, assicurando invece l’ascesa sociale dei capaci e meritevoli; che insomma la scuola è veramente l’ascensore sociale del Paese.
Peccato che come indicano tutte le statistiche ciò non sia più vero da tempo. E non è più vero anche, se non principalmente, proprio perché la scuola promuove tutti, cioè non seleziona, e una scuola che non seleziona, che non accerta il merito, è una scuola che in linea di principio rifiuta di fornire alla società, al mondo del lavoro, qualunque attestato affidabile circa le reali competenze, la volontà d’impegnarsi, le capacità di ingegno e di carattere, dei giovani che le sono stati affidati. Rischia cioè di divenire una scuola autoreferenziale, utile solo come parcheggio e per consentire ai politici di dormire sonni tranquilli, illudendo le classi povere che c’è un’istruzione al loro servizio. Che, grazie all’istruzione, c’è per i loro figli quell’avvenire migliore, che viceversa assai difficilmente ci sarà. Quanto alle classi abbienti invece, loro, ormai, hanno capito bene come stanno le cose, e da tempo sono corse ai ripari. O riuscendo in vari modi a sollecitare in questo o quell’istituto specie delle grandi città la formazione di classi di serie A dove concentrare i propri rampolli, ovvero mandandoli a studiare in una scuola straniera o direttamente all’estero.

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