il dovere di ricordare le stragi

29 maggio 2017 di: Rosanna Pirajno

Sono trascorsi alcuni giorni dal 23 maggio del venticinquennale della strage di Capaci, celebrato in ambito nazionale da un intenso speciale dedicato da Rai Uno a quell’orribile giorno del 1992 in cui la mafia condannò a morte Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinari. Da 25 anni ci diamo appuntamento all’Albero Falcone, per non dimenticare.

Quest’anno eravamo più carichi di sofferenza e sconforto per la strage di 26 giovanissimi ammazzati da un fanatico jihadista all’uscita da un concerto a Manchester, non si finisce mai di contare morti innocenti che ci toccano da vicino. La mafia giorni fa è tornata a colpire in città, facendoci ripiombare nella cupa atmosfera dei regolamenti di conti a furia di piombo, scegliendo la vigilia dell’anniversario per ammazzare un boss vai a capire per quali dinamiche di lotta del potere mafioso.

Eppure la partecipazione alle celebrazioni del sacrificio dei nostri “martiri laici” è stata altissima, non solo gli studenti della Nave della Legalità venuti da tutta Italia hanno sfilato e affollato i vari luoghi dell’itinerario, ma anche folle di studenti e cittadini palermitani erano presenti come non tanto ultimamente. Ogni anno, prima e dopo la data fatidica, piovono commenti sulla presunta retorica della celebrazione, i social e i media traboccano di “io non vado perché non mi appartiene più, troppi i personaggi indegni di commemorare in morte chi hanno avversato in vita” opposti a “io vado perché, se anche senza vergogna sfilano presenze incongrue, è un atto d’amore e di riconoscenza che sento di dovere esprimere a chi si è sacrificato per permetterci di scegliere da che parte stare”. Quest’anno, a cura della direttora Francesca Spatafora del Museo Salinas, è stata pure scoperta una targa in memoria dell’impegno del magistrato Francesca Morvillo nei confronti dei giovani detenuti del carcere Malaspina.

Non mi sentirei la coscienza a posto, se non andassi all’Albero Falcone o in via D’Amelio a ricordare quell’orrore nella ricorrenza delle stragi FalconeeBorsellino, la memoria bisogna coltivarla in ogni caso e ciò vale tanto per noi che c’eravamo, noi annichiliti dall’immensità della perdita, noi che ci siamo stretti in un abbraccio cosmico per darci conforto, noi marcati a sangue dalla perdita irreparabile delle nostre speranze di riscatto, noi che l’atrocità mafiosa l’abbiamo rivissuta nel tragico film di Grassadonia e Piazza sul bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato per due lunghissimi anni e poi strangolato e sciolto nell’acido – due anni di prigione crudele per un bambino, sol perché figlio di pentito, è insopportabile soltanto l’idea – da quel medesimo Brusca che schiacciò il pulsante delle fatali cariche di tritolo.

Ma coltivare la memoria, specie la tragica e insopportabile, è necessario soprattutto per i giovani che nel ‘92 non erano neppure nati e nulla saprebbero delle atrocità della mafia se non si sacrificassero, una volta l’anno, a sfilare in questa città che rifiuta l’identificazione con la mafia aspirando a diventare “capitale della cultura”. Bisogna farlo, in omaggio a chi la vita l’ha sacrificata per puro “spirito di servizio”, quello che mosse Giovanni Falcone, con Paolo Borsellino e le numerose altre vittime sacrificali, fino alla fine.

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