Cosa resterà?

2 aprile 2020 di: Stefania Di Filippo

Sono passati 32 giorni dal primo contagio, dall’inizio della diffusione del coronavirus in Italia, fino ad un mese fa non ne conoscevamo nemmeno l’esistenza e ancora oggi si tenta, giorno per giorno, di capire un po’ di più di questo nemico invisibile. Eh sì, perché la sua pericolosità sta proprio nell’altissima capacità di contagio, l’unica arma, infatti, per poter contrastare la sua ascesa è rimanere in casa e limitare i contatti.

Ai cittadini italiani, come a quelli di altre nazioni, è stato richiesto di rimanere all’interno delle mura domestiche, questo “sacrificio” sembra essere banale ed invece è proprio lì che sta la nostra forza e la debolezza di questo nemico: più ci si incontra, più si rafforza. Genitori lontani dai figli, nipoti lontani dai nonni, colleghi abituati a vivere fianco a fianco tutte le sfide di un giorno lavorativo costretti a vedersi attraverso lo schermo di un pc. Servirà tutto questo? Cosa ci insegnerà? L’arte della pazienza, magari, quella che ci richiede il nostro Premier, quando ci invita ad aiutare gli operatori sanitari, le forze dell’ordine per poter arginare questa mattanza (i bollettini della protezione civile sembrano più bollettini di guerra che aggiornamenti), familiari che non possono dare l’ultimo saluto ai loro cari, cimiteri che non riescono più a contenere i morti. Ci insegnerà magari anche l’affetto, a manifestarlo di più, ad odiarci di meno e a sentirci più vicini, a non dare per scontato sempre tutto e soprattutto ci insegnerà l’importanza della libertà.

La maggior parte della gente, probabilmente, non riesce a sopportare non tanto la privazione ma la mancanza di alternativa, magari, si vive all’estero o lontani dal proprio paese da anni e si torna dai propri familiari una/due volte all’anno, perché si sa che si può sempre tornare, si può decidere da un momento all’altro di farlo ed invece, in una situazione surreale come questa, non ci è permesso, e forse è proprio questo che ci stimola, ci porta a voler videochiamare la nostra famiglia tutti i giorni, a sentire amici di cui, magari, prima non ci preoccupavamo affatto. Sono la privazione e la mancanza di alternativa che ci porteranno ad apprezzare molto di più quello che abbiamo e magari, la solitudine di queste giornate, ci porterà a conoscere meglio noi stessi, ad ascoltarci un po’ di più.

E quando tutto questo finirà, probabilmente, ci saranno meno haters e più conciliatori, ci saranno meno stories e più storie, quelle belle, toccanti, che saranno raccontate ai tavolini di un bar in un giorno di sole.

3 commenti su questo articolo:

  1. antonella scrive:

    sicuramente tutto questo ci sta rendendo più umani…sto insegnando le divisioni a due cifre alla mia piccola perchè nella sua scuola non si riesce ancora a gestire il problema della connessione e del lavoro on line con i bambini e i genitori che se ne occupano…ne ho parlato con l’insegnante di mio figlio maggiore che mi ha detto che noi siamo speciali e che quello che stiamo vivendo è un momento magico che ci fa “giocare” con i nostri figli a fare scuola insieme…anche questo ci aiuta a metterci in gioco ancor di più come genitori…forse stavamo delegando un po’ troppo quanto ci compete dal punto di vista educativo…o no?

  2. Roberta scrive:

    Speriamo che questo periodo di riflessione forzata ci aiuti a fare uscire il meglio che c’è in noi .

  3. Sara scrive:

    Con una diversa leggerezza di spirito ieri cantavamo: Cosa resterà di questi anni ‘80. Oggi ci chiediamo cosa ci resterà di questa drammatica esperienza. Mi torna in mente il titolo del romanzo di Peter Cameron: Un giorno questo dolore ti sarà utile. Forse è l’augurio che ci accomuna. Una frase (di chi sia ora non ricordo) dice in modo molto appropriato: Se il dolore non ti ha reso migliore hai sofferto invano

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