Gi abiti nuovi delle imperatrici
In questo tempo forzatamente e dolorosamente tutto casalingo, un paio di riflessioni leggere.
Guardiamo tanta televisione e video per tutti i motivi possibili, ma non c’è dubbio che l’informazione ha assunto un posto centrale. Sia pure nello scoramento delle notizie, difficile non notare che le acconciature femminili hanno subito un tracollo! Quelle maschili no. Come fossero per lunga esperienza adatte a ogni eventualità. Il notarlo mi ha ricordato un breve scritto mai condiviso che adesso propongo.
Nel ‘900 appena trascorso il femminile si insediò stabilmente fuori casa, nei luoghi del sociale, fatti i passi essenziali per accedervi (diritto al voto, al lavoro, alla parità). Vestito dei suoi abiti migliori ma con il guardaroba sfornito dell’essenziale: nessuna ci aveva pensato, ma con tanti vestiti e sapendo tutto sul vestire perché porsi il problema? Fu così che le donne, catapultate dall’oggi al domani fuori di casa (a confronto nulla, se pensiamo alla lunga storia del vivere oltre le mura domestiche che ha prodotto l’abito maschile), si vestirono di volta in volta come sentivano, senza pensarci troppo, o meglio pensandoci tanto (ante aperte dell’armadio al grido: cosa mi metto?) e fu una sfilata senza precedenti che dura tuttora. Libera, ricca di tutte le combinazioni possibili, in un impasto di stili, di contaminazioni, che hanno fatto moda. Ponderosi saggi ci hanno ben spiegato come la strada dia forma alle scelte stilistiche della creativa industria dell’abbigliamento. La rivoluzione inconsapevole del vestire femminile, che scorre senza regole per le vie del mondo è stata accolta e teorizzata. Bello pensare che senza accorgersene le donne hanno dettato le nuove regole del vestire : nessuna regola! O meglio nessuna regola a patto che uno stilista lo decreti.
Sono stati adoperati tutti i vestiti possibili che avevano preso forma nell’abitare sociale, ma senza maturare una specificità rispetto agli ambienti di lavoro. E facendo dei pantaloni la grande acquisizione presto consolidata della tenuta quotidiana al maschile. Che pure aveva condiviso col femminile tuniche, gonnelle, merletti ma non crinoline. Forse.
Il maschile vive la vita lavorativa e non, dentro divise, militari o civili che siano. E tutte coniugate intorno giacca e pantaloni. Il femminile può, se al lavoro, o indossare le divise consolidate dal maschile (gessato con tacchi, must nella rappresentazione del potere femminile alla direzione dii tanti uffici statunitensi nella cinematografia di fine ‘900), o … da mattina, da sera, da cocktail, da matrimonio, da casa, sportivo, …. Secondo l’estro e le necessita del momento! Apparentemente! Perché regole più o meno articolate e complesse trafiggono, non sempre perscrutabili, la declinazione del vestire.
Vediamo giornaliste televisive (le più in vista a declinare un mestiere serio, intellettuale, competente e in linea di massima compìto), non importa se di mattina o di sera, muoversi e parlare tra pizzi, satin, merletti, trasparenze, gioielli, scollature, drappeggi e colori in assoluta libertà.
Si potrebbe pensare che quanto accade per le giornaliste in televisione abbia a che fare con la comunicazione per immagini, con le regole che sia pure di sfioro, inglobano e spettacolarizzano tutto ciò che toccano, con l’inevitabile conseguente tributo da pagare a una necessaria godibilità estetica: bellezza e giovinezza innanzi tutto, onere del femminile e niente funziona meglio per la valorizzazione del corpo di un un vestito.
Lo stesso succede in tutti gli ambienti professionali: scuola, sanità( un pò meno per via del camice-divisa per tutti), uffici. Spesso con effetti stranianti e risibili: l’abito per il lavoro può succedere che sia l’abito elegante che non può essere indossato per la terza volta nelle “occasioni”, il golfino che invecchia, la gonna passata di moda, il colore della stagione scorsa. O disinvoltamente la tuta con cui correre dopo, o se al lavoro tanti sono i maschi a cui piacere, essere in tiro come se fosse il sabato sera. Difficile barcamenarsi.
Perché lo sguardo maschile a cui si offre il femminile fa sempre la differenza! E detta le regole fondamentali di una irrinunciabile seduzione, irrinunciabile ovunque sia necessario rappresentarsi a un maschio e presenti altre donne con la medesima funzione: piacere!, ognuna secondo regole e controregole, che segnano i territori e le appartenenza socio-culturali più invalicabili sicuramente di quelle sociali.
“Io mi vesto così per piacere a me stessa!” E l’affermazione più frequentata se se ne parla, soprattutto tra donne.
Nella difficile condizione di coniugare la propria presenza a questo mondo compressa tra seduzione-esposizione di una fisicità in competizione con altre donne per la conquista del maschio, e funzionalità dei propri movimenti e gesti al lavoro e per il lavoro.
Se per le altre specie animali l’onere della livrea rutilante e in grande spolvero riguarda quasi esclusivamente il maschile, per l’umanità sembra che tocchi al femminile l’handicap della esibizione della propria fitness a dimostrazione della competenza riproduttiva, che in sostanza detta i codici della seduzione. Ma occorre l’abito da lavoro? Che indichi compiti, tipo, funzionalità?
Come dice Edna, creatrice di moda nel cartone animato Gli incredibili( 2004) a proposito di tute indistruttibili e accessoriatissime “ meglio senza mantello, intralcia!”.
Allo stesso modo bisogna chiedersi: come vestirsi nella vita fuori senza intralci, adeguatamente.
Domanda formulata nella certezza che un futuro abbastanza prossimo ci riverserà per strada, ma che ci vorrà tempo per acquisire abiti femminilmente adatti alla funzione e ai luoghi che ormai stabilmente appartengono alle donne. Mi piacerebbe intanto chiedere: come ci si veste a casa? Luogo della libertà dalle coercizioni vestiarie socialmente sopportate? L’espressione più autentica di sé o la perdita verticale di status, di decenza? E se in famiglia o soli, con che differenze? Le nuove imperatrici, come ebbe a dire il piccolo della nota favola, sono ancora oggi nude?
hai messo il dito sulla piaga, cara mia. Abituate da secoli ad approvarci allo specchio, la forzata quarantena
ci rimanda immagini spesso sgradevoli, che non aiutano il nostro equilibrio.
non potrebbero le mogli, figlie, sorelle o amiche di scienziati e politici mettere una parola di aiuto su modalità di funzionamento per centri estetici e parrucchieri?
La prima stilista che immaginò un’abbigliamento comodo per la donna, senza perdere in eleganza, fu Coco Chanel. Durante la grande guerra le donne infatti avevano dovuto sostituire gli uomini partiti al fronte in molti lavori. Nella mia vita lavorativa ho sempre indossato una divisa ospedaliera unisex, questo mi ha permesso di non farmi troppi problemi sul come pormi sia verso i colleghi che verso le colleghe sottraendomi al contempo a quella sottile competizione femminile in fatto di linea, abiti ed accessori più o meno griffati. Per il resto ed in qualsiasi occasione, sia pur elegante, solo e soltanto scarpe basse, la tortura dei tacchi alti, almeno io, non l’ho mai capita.
un abbigliamento comodo per me era il grembiule a scuola…l’ho indossato fino al quarto anno delle superiori, poi, in nome della libertà da quella che veniva considerata una uniforme, il quinto anno l’ho dismesso…ma che tragedia!!! non sapevo cosa mettere per non essere sempre quella che non aveva maglioncini alla moda e abbigliamento consono ai gusti di compagni e compagne…e da allora la situazione non è migliorata di molto…sono solo cresciuta cercando la sobrietà e un certo decoro mai vistoso o non in linea con la mia timidezza. Conclusione: non ci si veste per noi stessi ma per gli altri, per quel “rispetto umano” subordinato alle opinioni e alle reazioni altrui…